Se questo è amore
“Primo amore” di Matteo Garrone. Avevo sentito parlare di questo film già al momento della sua uscita, ovvero nel 2004, ma nonostante mi avesse incuriosito fino a qualche mese non l’avevo ancora visto. Questo inverno l’ho cercato ed è stata una scoperta interessante quanto conturbante.
Ne scrivo qui, perché credo possa incuriosire gli appassionati di cinema a sfondo psicologico e di sguardi vicini alla crudezza di certe esperienze umane. Lo sguardo che ci offre Garrone, infatti, ci mostra un enorme disagio e un’enorme sofferenza nella loro essenzialità, in maniera secca, senza orpelli e fronzoli, ridotti all’osso e scarnificati come il corpo della protagonista, crudi come le verdure che è costretta a mangiare, fissi e immutabili come lo sguardo del protagonista.
Vicenza. L’austerità e la solitudine di un orafo proprietario di un piccolo laboratorio. La vitalità e la solarità di una giovane donna. Un appuntamento al buio in seguito a un annuncio su un giornale. L’inizio di una relazione che, inesorabilmente, si trasforma in una prigione da cui non si riesce ad uscire, in un crescendo di inquietudine e senso di soffocamento.
Vittorio lavora e maneggia l’oro da sempre. Nella sua attività toglie via il superfluo e l’impurità per giungere alla purezza essenziale dell’oro. Allo stesso modo, persegue ossessivamente, anzi, in maniera delirante, un ideale estremo di magrezza femminile che impone a Sonia, la sua compagna innamorata, apparentemente serena e già magra. “Bisogna togliere tutto, finché si arriva al cuore delle cose”, afferma Vittorio. Il loro primo incontro sembra mostrare sinteticamente ciò che avverrà in seguito, preannunciandolo. Una battuta di Vittorio sulla magrezza di Sonia, per lui insufficiente, è ciò che li lega indissolubilmente: lui si trova dinanzi a un corpo da modellare e da rendere “puro”, da controllare e soppesare come se fosse in suo potere, lei si sente spinta a dimostrargli di poter aderire a quell’ideale pur di essere amata, probabilmente sulla scia di qualche profonda insicurezza. E così, pian piano si dispiega un inferno, un inferno fatto di un controllo rigido e patologico dell’alimentazione di lei da parte di lui, di ossa tastate, di un corpo sempre più magro e privo di vitalità, in una dimensione in cui sembrano essere presenti solo i due partner. Non c’è spazio per la realtà circostante, per le altre relazioni che gradualmente passano in secondo piano, per il lavoro che prima appassionava, per la libertà. Sonia sacrifica il suo corpo, la sua fame e la sua libertà per il suo “dominatore”, che pensa di amare e che crede di amarla, in una spirale asfissiante di controllo e di dipendenza affettiva che sembra non lasciare scampo.
La recitazione è anch’essa essenziale, tanto da dare allo spettatore l’impressione di non trovarsi dinanzi a un film. Silenzi, sguardi, imbarazzi, corpi, frasi che si sovrappongono, è tutto molto reale e privo di artifici recitativi. I due attori recitano senza recitare e l’effetto è davvero ben riuscito. Il rumore che Sonia fa masticando la verdura cruda, povera, scondita, mentre Vittorio mangia con gusto un pasto caldo, rende estremamente concreta la restrizione. A rendere la storia ancora più realistica e radicata in un preciso contesto è il forte accento veneto, soprattutto di Vittorio, che a volte si stenta pure un po’ a capire, tanto risulta autentico, trascinato, sussurrato. E questo contesto, che appare un po’ chiuso, restrittivo, vagamente rigido, e al contempo così affascinante, deve avere una sua importanza e una sua influenza, che si intuiscono ma che non si dispiegano mai totalmente.
Allo stesso modo, Garrone non si sofferma sui motivi psicologici per cui Vittorio è ossessionato dalla magrezza e dal controllo del corpo femminile; non indaga i fattori che portano Sonia a scegliere di immolarsi e farsi male per “amore” di lui; non analizza in profondità i punti di aggancio tra l’ossessione patologica di Vittorio e la dipendenza altrettanto patologica di Sonia. Sì, Vittorio è un orafo e mira alla purezza, dice di voler coniugare mente e corpo, ma ciò non offre una spiegazione. Sì, Sonia probabilmente non ha una grande autostima, ma ciò non basta a capire fino in fondo cosa le accade. Dunque, non ci sono interpretazioni, spiegazioni. Compare uno psichiatra, ma nessuna diagnosi. La situazione viene mostrata così com’è, come un quadro, una fotografia, senza un prima e senza un dopo. Ciò permette di paragonare questa assurdità ad altre assurdità, più o meno estreme di questa, ad altre dipendenze affettive, ad altre violenze velate o meno velate, ad altre prigioni scelte, insomma, a qualsiasi altra situazione relazionale in cui, ad un certo punto, si incappa in una “china scivolosa” che sembra non arrestarsi.
Durante la visione del film, ci si chiede rabbiosamente come mai Sonia non ascolti la propria fame, come mai si faccia dire da Vittorio cosa mangiare e quanto esser magra. È quanto di più pazzesco e impensabile possa capitare in una relazione, che l’uno dica all’altro cosa ingerire, e che sia una condizione imprescindibile per poter rimanere insieme. E, in effetti, è il personaggio di Sonia a smuovere di più gli animi. Perché abdica così alla sua intera esistenza? Perché chiude la porta della prigione dietro di sé? La sua non è una classica anoressia, ma allora di cosa si tratta?
Forse, nella sua mansueta e poi disperata sottomissione a un ordine esterno, si riconoscono i segni di quelle dipendenze affettive di cui si sente tanto parlare e che spesso, anche se in misura minore, riguardano anche noi. La storia è stata ispirata, infatti, a un episodio di cronaca. È la storia di chi non riesce a sganciarsi da ciò che fa soffrire e teme così tanto l’abbandono e il rifiuto da accettare dolori e umiliazioni; è la storia di quelle relazioni così invischianti che i confini dell’uno e dell’altro si confondono, ed è il controllo a fare da padrone. E a ben vedere, questa dipendenza è reciproca, la prigione è costruita da entrambi, nessuno dei due riesce a uscire dalla dinamica. Chissà, ci si chiede con perplessità e inquietudine dinanzi a Sonia che si tocca orgogliosamente le ossa della cassa toracica, è così difficile cadere in una simile trappola?
Il controllo del corpo, deprivato fino a diventare scheletrico, rende efficacemente l’idea dell’abbandono totale al potere dell’altro, lo esemplifica vividamente. È la rappresentazione massima della mancanza di libertà, all’interno di una relazione o di uno Stato. Anche per questo, il film in questione non è facilmente digeribile. E non è un caso che scrivendo mi venga in mente “Salò e le 120 Giornate di Sodoma” di Pasolini.
E comunque, ben vengano film come questi. Anche se duri e spigolosi, ci costringono a fare i conti con gli aspetti più reconditi di noi e a prendere in considerazione, mediante l’immedesimazione, quanto di più oscuro riguarda l’umanità.
Riconoscere questa oscurità è già tanto.
Riconoscere, soprattutto, che certe forme di amore sono forme d’altro.