Il confine della pelle
Mi piace molto andare a scovare film italiani passati quasi inosservati, sconosciuti ai più, o presto dimenticati. Soprattutto se non sono produzioni altisonanti e risalgono a qualche decennio fa. Li si può guardare con la lucidità della distanza temporale e senza la soggezione che a volte comporta il grande film.
Così, mi sono ritrovata a rivedere un film del 1994 intravisto da ragazzina e poi messo nel dimenticatoio, “Senza pelle” di Alessandro D’Alatri.
Si tratta di un film che è di indubbio interesse per chi, per qualsiasi motivo, è vicino ai disturbi psichiatrici e per chi apprezza le produzioni sul tema, ma che permette di riflettere su un aspetto rilevante per l’esperienza umana in generale. Per alcuni versi un po’ crudo, per altri forse poco realistico, in ogni caso è nel complesso un prodotto di valore, grazie anche alla sorprendente recitazione dell’attore principale.
Saverio, interpretato da un giovane Kim Rossi Stuart, è un ragazzo affetto da un disturbo psicotico. Estremamente sensibile, appartenente a una famiglia facoltosa, continuamente nascosto nel suo ingombrante cappotto, vive con la madre in una grande casa. Non ha contatti sociali di alcun tipo, non frequenta centri diurni o comunità riabilitative, si limita a seguire la terapia farmacologica e a sfogliare in solitudine le riviste di intimo femminile. Si innamora di Gina (Anna Galiena), un’impiegata delle poste che intravede per strada e che neanche conosce, e l’innamoramento, se di innamoramento si può parlare, è assoluto, totalizzante, senza confini. Con lettere d’amore e telefonate anonime continue, entra così nella tranquilla vita della donna e del suo compagno Riccardo (Massimo Ghini), scombinandola. Tra reazioni di gelosia, incertezze e perplessità, la coppia si avvicina gradualmente a Saverio, tentando di conoscere meglio il suo mondo, distoglierlo dalla sua ossessione, coinvolgerlo nelle loro uscite. Gina, in particolare, si lascia affascinare e al contempo inquietare dalla fragilità di Saverio, fino a quando si renderà conto di non potersi avvicinare troppo, pena la stabilità di lui.
Il film concentra il focus su un aspetto dell’esperienza psicotica, che chi vive a contatto con questa esperienza conosce bene, ovvero la mancanza o l’estrema labilità della “pelle”. Come viene descritto nel film, infatti, Saverio è un “senza pelle”, ovvero senza difese, scoperchiato, permeabile a qualsiasi stimolo, estremamente vulnerabile. Per “pelle” si intende metaforicamente il confine, il limite, la demarcazione tra la propria esistenza e l’esistenza di tutto il resto. Metaforicamente, ma non del tutto. La pelle è, in effetti, il confine per eccellenza tra l’Io e il mondo, ciò che ci separa dagli altri, dagli oggetti, dall’aria. Ciò che ci differenzia dalle altre esistenze e presenze, e che ci permette di dire “Questo sono io, quello non sono io”.
Negli anni Ottanta, lo psicoanalista D. Anzieu ha elaborato il costrutto dell'”Io-pelle”, per riferirsi all’importanza dell’involucro dell’epidermide per la costituzione dell’Io psichico. La pelle fornisce un “involucro narcisistico” che consente al bambino di costituire e sperimentare un “involucro psichico” e di percepirsi in grado di contenere pensieri e affetti. L’Io-pelle nasce nel bambino piccolo grazie all’esperienza del contatto corporeo con la madre, dell’essere tenuto in braccio e contenuto, e si tratta ovviamente di un contenimento che è sia fisico che psichico. Dopo una prima fase simbiotica in cui madre e bambino percepiscono quasi di avere la stessa pelle, entrambi dovranno poi pian piano appropriarsi della propria pelle e riconoscere la propria separatezza psichica. Se tutto procede bene, se il contenimento materno è “sufficientemente buono” e offre anche la possibilità di auto-contenersi, il bambino potrà interiorizzarlo e identificarsi con l’abbraccio della madre, sostenersi psichicamente così come la madre lo ha sostenuto e contenuto fisicamente tra le sue braccia. L’Io-pelle, così costituito, modellato sul soma e sulle funzioni della pelle biologica, riveste importanti funzioni per l’equilibrio psichico, tra cui in particolare quella di proteggere l’individuo dagli stimoli esterni e di aiutarlo a conferire un significato agli stimoli interni. È una sorta di “sacco” in grado di trattenere contenuti psichici, è ciò che fa sentire differenziati dagli altri, è un confine, allontana la minaccia della con-fusione ed è la sede degli incontri con l’altro.
Se il contenimento dell’adulto significativo risulta carente rispetto al bisogno di contatto del bambino, oppure, se è talmente fusionale che non consente al bambino di sperimentare mancanze e frustrazioni, o ancora se il bambino non riesce a reggere all’angoscia della separazione, l’Io-pelle che si andrà a costituire non si configurerà come un involucro psichico auto-contenitivo, come un confine necessario, bensì potrà prendere la forma di una barriera che non lascia passare alcunché, per il timore del contatto con l’altro, o come una pellicola troppo sottile che lascia entrare qualsiasi stimolo in maniera caotica e angosciante.
Saverio, quindi, è senza pelle. Cammina, infatti, coprendosi con l’enorme cappotto anche quando non fa freddo, quasi come se avesse bisogno di proteggersi, dotarsi di un involucro massiccio. L’interesse per una donna sconosciuta gli entra dentro in maniera assoluta, diventa un’ossessione, un martellamento, lui stesso diventa molesto, non vede impedimenti al suo “amore”, fa uscire da sé le emozioni in maniera esplosiva. Smette di assumere la terapia. Scrive poesie che richiamano l’eterno, l’infinito, l’incondizionato: “Grazie a Dio, finalmente ti ho trovata. Da molto tempo ti aspettavo, tu mi hai donato senza chiedere. Ora potrò ricomporre i frammenti della mia Anima. Ti amo, Saverio.” Quando l’avvicinamento a Gina diventa per un attimo più reale e corporeo, l’effetto su Saverio è devastante, complice il conseguente allontanamento della donna, resasi conto di aver ingenuamente valicato una pellicola troppo fragile. Saverio troverà, poi, una “pelle” protettiva e contenitiva in una comunità terapeutica in cui potrà eventualmente sperimentare o ricambiare un sentimento amoroso senza che ciò diventi distruttivo per il suo equilibrio.
Il film sembra lanciare l’importante messaggio che personalità così fragili possano essere adeguatamente supportate in contesti riabilitativi e terapeutici che fungano da “pelle” contenitiva e che consentano loro di svolgere attività, di scongiurare il rischio dell’isolamento e di filtrare gli input che vengono da una società complessa e giudicante. Soprattutto, come anticipato, il film mette efficacemente in scena la mancanza di un confine/pelle tra la realtà interna e quella esterna, che contraddistingue l’esperienza psicotica, permettendo poi di allargare la riflessione alla funzione e al linguaggio della “pelle” in ognuno di noi.
Capita spesso di osservare abbigliamenti stravaganti, “fuori stagione”, nelle persone che soffrono di patologie psichiatriche, come appunto indumenti troppo pesanti e ingombranti. Oppure, di riscontrare in loro una resistenza a lavarsi, a prendersi cura della propria igiene. Oltre che ai cosiddetti sintomi “negativi”, ovvero ai sintomi che comportano un deficit nelle risposte emotive e nello slancio vitale, come l’apatia o l’appiattimento dell’affettività, questi comportamenti potrebbero essere legati anche al tentativo di proteggere lo strato della “pelle”, ovvero il proprio confine, percepito come troppo sottile, e di tenerlo al riparo dall’aria e dall’acqua, in pratica dal mondo esterno, per scongiurarne una rottura avvertita come imminente.
Data la sua funzione di confine con l’esterno, quindi, la pelle può essere sede e teatro di svariati significati, e ciò non vale solo per le psicosi, in cui la caratteristica principale è proprio la compromissione del rapporto con la realtà esterna, ma anche per altre manifestazioni. Basti pensare, ad esempio, a certe forme di autolesionismo, in cui la persona arriva a incidere, tagliuzzare, bruciacchiare, la propria pelle, fino a farla sanguinare o a provocarsi lividi, nell’estremo tentativo di ritrovare il controllo e la “proprietà” di se stessi attraverso il dolore fisico, come se non ci fosse altro modo per sentirsi vivi ed esprimere le emozioni negative.
Senza arrivare necessariamente ai fenomeni psicopatologici gravi, possiamo prendere in considerazione il linguaggio della cute anche nell’esperienza più comune e conosciuta ai più, come nell’ambito della psicosomatica delle malattie della pelle, come la vitiligine, la psoriasi, l’acne. La pelle ospita il tatto, ci permette di conoscere il mondo esterno e di racchiuderci in un’unità, ci contraddistingue con le sue caratteristiche e ci fa entrare in relazione con altre pelli, da qui la possibilità che per ognuno di noi diventi un veicolo attraverso cui esprimiamo agli altri, e in maniera visibile agli altri, emozioni che fatichiamo a riconoscere e ad esprimere in altro modo.
Questa pelle che ci riveste per intero e che identifichiamo con noi stessi, che amiamo truccare, rivestire di crema, tatuare, o che, al contrario, tendiamo a trascurare, a coprire, a detestare per le rughe, i brufoli o le cicatrici, parla di noi più di quanto pensiamo, e forse andrebbe ascoltata più di quanto facciamo.
Anzieu D. (1985), L’Io – pelle, trad. it., Roma, Borla, 1987.