Paterson. La bellezza della consuetudine
Tempo di rientri. Dalle vacanze, dalle ferie o, per chi non ne abbia avute, dalla tipica atmosfera di sospensione dei mesi estivi. La città deserta pian piano si ripopola, i mezzi si riempiono, le strade si intasano nuovamente. Riprende ciò che viene definita “la normalità”, la vita di tutti i giorni, la routine lavorativa, scolastica o domestica, il tran tran ripetitivo.
C’è chi saluta con sollievo il ritorno all’usuale ritmo quotidiano, lo accoglie come si accoglie un’ovattata sicurezza, un porto familiare a cui ricongiungersi dopo un’esplorazione. Al contrario, c’è chi arriva a soffrire di un vero e proprio “trauma da rientro”, al pensiero di riprendere contatto con ciò che è stato lasciato in sospeso e di cui forse non è profondamente contento.
L’andamento delle nostre giornate tipiche, sia che lo percepiamo come insostenibilmente noioso e ripetitivo, sia che lo consideriamo soddisfacente e sereno, è ciò che contribuisce a dare senso e struttura al nostro incedere negli anni e nel tempo della nostra vita.
È riflettendo su ciò che mi viene in mente un prezioso film di Jim Jarmusch uscito nel 2016, Paterson, a cui vorrei dedicare queste righe e di cui consiglio la visione a chi non ha ancora avuto l’occasione di vederlo.
Quanto possa essere prezioso questo film, delicato, dolcemente poetico, e pure malinconico, lo si scopre solo andando al di là della sua apparenza di lentezza e immobilismo, immergendosi nella vita quotidiana del suo protagonista, salutando insieme a lui le piccole variazioni che rendono ogni suo giorno diverso dall’altro. Quelle stesse piccole variazioni che gli consentono di rinnovarsi a ogni passo, anche quando tutto sembra uguale.
Paterson è l’autista di autobus di una cittadina di provincia che ha il suo stesso nome. Ama teneramente, ed è da lei teneramente ricambiato, Laura, una donna dolce e dai mille interessi artistici. Ogni giorno si reca al lavoro con una mite rassegnazione, osserva dallo specchietto retrovisore del suo autobus le interazioni tra i passeggeri, ascolta stralci di discorsi, riflette laconicamente su di essi. Durante la pausa mangia il pranzo portato da casa e riporta su un taccuino le sue impressioni sotto forma di poesie. Rientra a casa, si intrattiene con Laura, osserva divertito le sue bizzarrie artistiche, cena con lei, porta fuori il cane brontolone e si ferma a prendere una birra al solito pub in cui incontra sempre le stesse persone. È un uomo pacato, essenziale come i suoi versi. Si accontenta del suo incedere quotidiano. Si accontenta, nel senso che ne è contento.
Il regista ci mostra giorno per giorno la settimana di Paterson, dal lunedì alla domenica, dal suono mattutino della sveglia fino al termine della giornata, e l’assenza di grandi avvenimenti che rende il ritmo effettivamente un po’ lento fa apparire come estremamente realistica tale vita. In fondo, anche le nostre giornate sono così: ci svegliamo più o meno allo stesso orario, compiamo le stesse azioni per prepararci e uscire di casa, trascorriamo un bel po’ di ore fuori sempre nello stesso luogo, che sia il posto di lavoro, la scuola, l’università o il bar sotto casa, salvo commissioni o imprevisti rientriamo approssimativamente allo stesso orario, e via dicendo. Piccoli consueti comportamenti, azioni, avvenimenti, che rendono nostra la vita che facciamo. Gli avvenimenti eclatanti, i grandi eventi – positivi o negativi che siano – che danno scossoni alle nostre esistenze, non sono così frequenti. Il resto è un tranquillo incedere.
L’incedere di Paterson è particolarmente quieto e fa apparire la vita quotidiana come un fiume che scorre dolcemente. C’è qualcosa che si muove, anche se il carattere mite di Paterson e la sua tranquilla – qualcuno direbbe noiosa – esistenza fanno pensare il contrario. Qualcosa si muove quietamente ed è ciò che rende unico ogni suo giorno. Un incontro casuale in strada, una torta di Laura, un problema durante il lavoro, una poesia scritta davanti al ponte. Paterson impreziosisce le sue tranquille giornate con la scrittura di poesie a un tempo semplici e profonde, una parentesi che dedica a se stesso e che gli fa vedere il bello nel consueto.
Non si sa nulla del passato di Paterson. Qualcosa sembra accennare di sfuggita a un passato meno tranquillo che ora gli farebbe amare la quieta serenità dei suoi giorni. Ma è un dettaglio forse non così importante. Ciò che il regista sembra voler evidenziare è l’andamento di una vita, nelle cui giornate anche un minuscolo dettaglio può fare la differenza, se osservato, valorizzato, riconosciuto. Ogni giorno, alla fin fine, in virtù dei suoi dettagli, è unico, non si ripeterà. E nella pellicola le variazioni si inseriscono all’interno di una ripetizione, come il ritornello di una canzone si inserisce tra le strofe. Il regista ha infatti in mente la struttura della poesia, che è, a suo dire, “una metafora della vita: ogni giorno è una variazione rispetto a ieri e domani”.
Paterson riesce a sorprendersi dinanzi alle piccole variazioni che solitamente passano inosservate, cercando in esse una profondità, e quando una variazione più grossa gli provoca dolore, si riassesta partendo da una pagina bianca, vuota. “A volte una pagina bianca offre più possibilità”, gli viene insegnato in un magico incontro casuale.
E noi? Siamo in grado di sorprenderci come Paterson dinanzi alla nostra vita di tutti i giorni? Riusciamo ad amarla, a prendercene cura, ad accarezzarla, nonostante lo stress, la fatica, il peso delle preoccupazioni e delle responsabilità?
Non è sicuramente facile valorizzare ciò che ci sembra scontato e che affrontiamo tutti i giorni, a volte non ci è proprio possibile, soprattutto se ci troviamo in un periodo particolarmente difficile, se abbiamo una preoccupazione seria che ci tormenta, se siamo molto affaticati o depressi o ansiosi, se stiamo soffrendo per qualcosa. Anche senza arrivare a queste situazioni specifiche, per le quali può rendersi necessario un aiuto specialistico, può capitarci di svegliarci la mattina con fatica, di affrontare la giornata lavorativa con un fastidioso senso di noia, o di scontentezza, o di stanchezza, di studiare con svogliatezza, di relazionarci con i nostri affetti investendovi poca attenzione, trascinandoci in una ripetitività senza la quale probabilmente ci sentiremmo monchi.
L’invito che sembra inoltrarci la visione di questo film è ad andare avanti nelle nostre giornate osservando ciò che ci circonda e che ci accade, annotandolo su un taccuino o nella nostra mente, ponendovi un’attenzione che impreziosisce o attribuisce senso, incorniciando quelle piccole semplici variazioni che con la loro essenzialità ci accompagnano ogni giorno. Senza naturalmente soffocare legittimi moti di scontento o trascurare umani desideri di cambiamento, vivere il nostro quotidiano prestando attenzione a ciò che di esso ci rinnova.
E se davvero la nostra quotidianità è una corrente calma da cui emergono piccoli o grandi vortici, forse l’esserne contenti, contentarsi, richiede uno sguardo semplice e sorpreso sullo scorrere inesorabile del tempo, quindi sul limite e sulla nostra finitezza.
Come recita una delle essenziali poesie di Paterson, scritte da Ron Padgett per il film, “stacco dal lavoro, mi faccio una birra al bar, guardo il bicchiere e mi sento contento.”